“Mi chiami migrante perché non conosci il mio nome”

L’associazione Asahi si narra

Questa settimana sotto i nostri riflettori c’è un’altra storia nata dal basso che mostra un ulteriore faccia del caleidoscopico attivismo bolognese. Il punto di partenza, tuttavia, è diverso da quello consueto. Il protagonista è Youlsa Tangara, un giovane maliano che dal suo arrivo in Italia nel 2015 ha avviato insieme ad alcuni compagni di traversata Asahi, un’associazione di migranti per migranti. Originariamente erano in 3, poi la rete si è diramata e oggi coinvolge migliaia di persone lavorando a livello locale, nazionale e internazionale. 

Youlsa è uno dei principali portavoce di Asahi Bologna, ma lavora assiduamente anche sul piano nazionale e internazionale. E’ una persona molto determinata, ed anche nell’attuale situazione politica italiana vede aspetti positivi sottolineando il ruolo fondamentale che hanno giocato gli ultimi decreti, in particolare quello su sicurezza e immigrazione, nel definire le fazioni e nel chiarire i posizionamenti. Ora non resta che agire in questo campo di battaglia. Ma agire come? 

Youlsa lo ripete più e più volte: dal basso. Mette in campo il suo corpo, la sua voce e la sua vita come contrattacco di fronte alla preoccupante disumanità con cui la politica italiana sembra rivolgersi agli stranieri immigrati. Egli sostiene che i diritti non vengano dall’alto (e sarebbe allarmante se così fosse) e che siano gli stessi protagonisti a doversi impegnare per ottenerli. Per lui la società civile italiana che opera a sostegno dei migranti è fondamentale. Contemporaneamente, però, avverte il bisogno di stare attenti a non cadere nel paternalismo da una parte e nel buonismo dall’altra, due derive di stampo (neo-)coloniale che tendono a subordinare la voce degli stranieri a quella degli uomini occidentali: la prima in una relazione di padre saggio e figlio da educare, la seconda invece ponendo la tolleranza come ideale supremo e assoluto in un rapporto verticale, scordandosi così di ascoltare l’altro per cui agisce e di conseguenza dimenticandosi di rispettarne la dignità. 
Secondo Youlsa invece, ogni persona è un “messaggero“: ogni vita porta valori e nel suo solo esistere plasma l’esterno e viene a sua volta plasmato da esso. Ragionare per categorie quindi è discordante con la fluidità delle relazioni di cui le esistenze individuali e sociali si intrecciano. 

Per capire meglio i valori e gli obiettivi che animano Youlsa, guardiamo che cos’è, cosa fa e come lavora Asahi. L’orizzonte di valori verso cui l’associazione muove le proprie attività e iniziative è l’orientamento, l’incoraggiamento e il supporto ai migranti. Quasi come effetto collaterale, mandano un messaggio anche agli italiani a cui, secondo Youlsa, bisogna ricordare che siamo tutti esseri umani, dotati di un corpo pensante, dove la moltitudine è fatta di singoli individui agenti. Al paese “ospite” mostrano infatti come anche lo straniero può e deve essere parte del processo di integrazione ed inclusione, anch’egli ha capacità intellettuale e fisica di azione. Forse proprio questo insegnamento può essere alla base di una riflessione costruttiva su come vogliamo organizzare la cosiddetta accoglienza nella nostra società. 

L’associazione Asahi fa attivismo culturale, sociale e politico. Gli attori sono diversi: prima di tutto ci sono i migranti stessi, dalle personalità, intenzioni e passati differenti, di diverse età e origini (Asahi coinvolge principalmente persone dell’Africa sub-sahariana, ma si ricordi la vastità di un continente irriducibile ad un’unica entità). Poi, in secondo luogo, c’è l’altrettanto composita società in cui noi e loro si trovano e ci troviamo, la quale vede sia persone che preferiscono respingere gli stranieri, sia persone che si sono schierate a favore dell'”accoglienza”. Tra i poli le sfumature sono inevitabilmente infinite.

L’associazione ha più focolai di diversa estensione geografica: ci sono quelli legati alle città (ad esempio ci sono centri a Piombino e a Firenze oltre che a Bologna); c’è la rete nazionale che raduna tutti coloro che entrano a conoscenza con l’associazione in Italia; c’è la rete internazionale, che coinvolge la Francia e i paesi di origine dei membri di Asahi.

Asahi si muove principalmente sui social network, quali Facebook e soprattutto Whatsapp, creando gruppi che permettono a tutti gli interessati di essere aggiornati e rendersi partecipanti attivi. I progetti che lanciano sono tanti e di natura molto differente, ma tutti sembrano accomunati da un insieme di parole chiave: orientamento, sensibilizzazione, circolarità di informazioni e contatti, rafforzamento dell’autonomia della singola persona, opposizione politica.

Youlsa mi racconta con passione un progetto che vogliono organizzare questa primavera presso il centro sociale bolognese Labas. Si tratta di un festival dell’imprenditoria per migranti, durante il quale alcuni giovani proveniente dall’Africa sub-sahariana raccontano il loro percorso professionale ed esistenziale all’interno della nuova città di appartenenza. Il festival ospiterà ad esempio un lavoratore nel settore ristorativo, uno studente di giurisprudenza e un’operatore sociale. Lo scopo è quello di presentare alcune strade percorribili dai giovani che ancora devono direzionare la propria esistenza, e dare speranza nella possibilità di raggiungere un’integrazione soddisfacente. Youlsa crede fortemente nella necessità che i migranti investano prima di tutto su sé stessi e Asahi muove allo scopo di incoraggiarli in questa direzione. Per Youlsa, avere un obiettivo chiaro che motivi a fare tutti i piccoli-grandi passi necessari per raggiungerlo è la chiave per costruire, mattoncino dopo mattoncino, la fiducia in sé stessi, carburante essenziale nel difficile futuro che li attende in terra straniera e non sempre ospitale. Youlsa riporta un esempio particolarmente calzante parlando della patente: avere la licenza per guidare aumenta le opportunità lavorative, ma per prendere la patente è necessario conoscere l’italiano. Così, con la meta in testa, la persona trae un ulteriore motivazione per studiare l’italiano. L’obiettivo ultimo da raggiungere: l’autonomia.
Autonomia vuol dire avere le possibilità di gestire la propria quotidianità, dalla semplice capacità di muoversi in città alla più complessa possibilità di costruirsi una famiglia e garantire un futuro ai propri figli. Solo dalla forza che si accumula giornalmente è possibile guardare oltre e progettare pragmaticamente il proprio futuro. Asahi invita alla lotta, ma questa è una lotta senza armi, una lotta senza distruzioni o violenze, è bensì una lotta per il riconoscimento della dignità personale, una lotta per la vita. 

“La responsabilità di migliorare la società non è per gli altri, ma per me, per assicurare ai miei figli di vivere in una società migliore un giorno”

Il festival dell’imprenditoria per migranti che avrò luogo al Labas ha una seconda dimensione: rendere pubblico che anche gli stranieri hanno idee, progetti e obiettivi e creare uno spazio in cui sia possibile uno scambio tra presunte categorie etniche affinché possa avvenire l’incontro nelle sfumature. 

Sul fronte internazionale invece Youlsa menziona un progetto che ha in mente per il suo paese d’origine. Partendo da una riflessione sull’ossessione occidentale per il corpo magro, il giovane ragiona sulla problematica opposta che caratterizza il Mali. Più una persona è in carne più dimostra il suo benessere sociale ed economico, ma i rischi di salute legati all’obesità non sono accettabili per Youlsa. In quest’ottica sta cercando di organizzare degli incontri di quartiere per le donne, coinvolgendo medici per parlare di dieta e alimentazione e creare più consapevolezza sulla salute, la prevenzione e la cura del corpo. Per gli adolescenti invece, sta cercando di avviare un progetto che possa aiutare all’orientamento scolastico: informando i giovani sulle prospettive dei diversi percorsi ambisce a fargli raggiungere la capacità di prendere scelte consapevoli di cui possono godere dei frutti a lungo termine. Youlsa ha sentito sulla sua pelle la mancanza di questo tipo di supporto: oggi comprende quanto sarebbe stato utile avere persone che gli spiegassero cosa fosse ragioneria e cosa meccanica e gli mostrassero le prospettive lavorative associate ad ogni indirizzo. 

Mentre sono con lui, non smettono di arrivargli messaggi sul cellulare. In diretta assisto al lavoro che quotidianamente opera nell’associazione Asahi. Ad una persona che gli scrive, ad esempio, Youlsa dà consigli sulle banche con cui può aprire un conto conveniente e sicuro per trasferire soldi dall’Italia al suo paese. Subito dopo invece, si mette in contatto con una proprietaria di casa con cui sta negoziando l’affitto per conto di alcuni ragazzi immigrati. Youlsa mi accenna a quanto in ogni fronte sia difficile per un nero in Italia ottenere la fiducia della gente, è arduo ottenere una stanza in affitto o un lavoro dignitoso per mantenersi. Youlsa mi ribadisce più volte la sua stanchezza di lottare prima per avere dei documenti, poi per mantenersi, e infine per farsi accettare. Una lotta estenuante, che lo vede costretto continuamente a giustificarsi, per motivazioni che risultano poco chiare: deve forse giustificarsi per essere in vita? Forse per essere giunto in Italia? Forse perché è nato con il colore nero della pelle? Come può dimostrare di essere una persona come tutti gli altri, come può ottenere l’autonomia agognata se nelle più piccole pratiche viene ostacolata?

Asahi sostiene, consiglia, si fa da garante e intermediario per questioni più burocratiche, motiva a investire su sé stessi partendo da cose più piccole che anche se apparentemente non sembrano priorità possono essere i primi passi per migliorare la propria vita.

Descrivere in poche parole Youlsa ed Asahi è riduttivo. In ogni loro azione e progetto sono racchiusi tanta dignità, tanto coraggio, tanta forza e tanta umanità. Incarnano valori e obiettivi che mettono in pratica quotidianamente in ogni piccolo gesto, riuscendo così ad agire a 360 gradi. Forse per definirli in poche righe si può dire che combattono per il riconoscimento della loro condizione di esseri umani. Come tutti gli altri sono, non di meno e non di più, persone. E la loro stessa presenza fisica è un grido perché ciò venga riconosciuto. Speriamo che presto non abbiano più bisogno di gridare.

Il mio intervistato non è un migrante, ha un nome,
si chiama Youlsa Tangara.

Articolo di Lucia Imbriaco,
ringrazio Youlsa Tangara dell’Associazione Asahi per il tempo che mi ha donato e la sua volontà di raccontarsi e farsi conoscere. 
Foto di Elena Tinti

1 pensiero su ““Mi chiami migrante perché non conosci il mio nome””

  1. PERFETTO – senza retorica -pietismo commiserazione…hai reso perfettamente lo spirito,la cultura, il sapere di Youlsa e dell’aggregazione da lui voluta.
    E’ notevole politicamente – in questo difficilissimo momento storico in Italia e non solo – diffondere il pensiero positivo e informare sulle forme di aggregazione che si realizzano “dal basso” che scavano come “la vecchia talpa” per migliorare una realtà comune.
    Pensando allo STATO DI POLIZIA che cercano di realizzare istigandoci, con la strategia- TERRORISTICA della PAURA, a diventare tutte spie … e ad odiarci fra di noi
    non posso accettare che persone come il nostro amico Youlsa … rimangano ancora sconosciute ai più.

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